MARCO CATARSI

D: Tutto iniziò alla fine degli anni 60 quando un gruppo di bambini dette vita ad una band dal nome Cuori di Pietra, e Marco Catarsi era alla chitarra… che ricordi hai?

R: Ricordi ne ho un miliardo, ma sono confusi, sovrapposti. Certe volte, quando descrivo un episodio di quell’epoca a un amico, ho la sensazione di mentirgli, di inventarmi tutto. Come è possibile che i Cuori di Pietra siano stati al fianco di Massimo Ranieri, di Gianni Pettenati o dei Rokes? Come si spiega che una sera siano stati presentati in pubblico dal superlativo Corrado Mantoni? Ogni volta mi sembra di raccontare una marea di balle. Poi guardo le foto e mi accorgo che è tutto vero. È stato vero, roba da non credere.

D: In che senso al fianco di Ranieri e degli altri grandi artisti che citi?

R: Nel 1967, quando i Cuori di Pietra iniziarono a salire sul palco, non era ancora nata la stagione del concerto (inteso come lunga serata di un solo cantante o di un solo gruppo): gli artisti di grido arrivavano sul luogo dello spettacolo verso le 11 di sera, si limitavano a cantare quattro o cinque loro successi, a concedere un bis, a firmare un centinaio di autografi e a darsela a gambe, travolti dalla folla in delirio.

D: E quindi?

R: Quindi c’era da colmare un bel buco temporale, perché la gente prendeva posto in sala verso le 8 o poco dopo, non arrivava mica alle 11. Di solito chi iniziava a scaldare la platea era un intrattenitore, un barzellettista, oppure una coppia di comici, come gli insuperabili Mario Fenzi e Armando Nocchi, i cui sketch in vernacolo erano irresistibili, ideali per rompere il ghiaccio.

D: Ma come, mi tiri fuori dal cilindro i grandiosi Fenzi e Nocchi? Fortuna che avevi le idee confuse! Prosegui, prosegui. E poi?

R: E poi toccava alla musica, vale a dire che iniziavano a esibirsi una serie di cantanti solisti e gruppi musicali, fra i quali — nove volte su dieci — potevi trovare I Cuori di Pietra, la band più giovane di Livorno (e chissà, forse della Toscana): quattro mocciosi di 8-9 anni, che lasciavano tutti a bocca aperta per la loro disinvoltura nell’affrontare le hit del momento.

D: Fammi qualche esempio di brani che avevate in repertorio. Ne ricordi qualcuno?

R: Di primo acchito mi vengono in mente Bonnie and Clyde (Georgie Fame & the Blue Flames), L’Incidente (Mal e I Primitives), L’Ora dell’Amore (cover di Homburg dei Procol Harum, in Italia portata al successo dai Camaleonti), Angeli Negri (cover di Angelitos Negros, canzone di Pedro Infante del 1948, in Italia riapparsa varie volte, in quel momento con Fausto Leali), Cinque Minuti e Poi (Maurizio Arcieri) e… boh, chissà quanti altri: di media ne mettevamo in piedi tre o quattro al mese.

D: Eravate davvero giovani, in realtà bambini… giocavate a fare i grandi o eravate davvero parte integrante, musicalmente parlando, di quella fantastica Livorno che vide nascere gruppi importanti sulla scena beat?

R: Rispondo per me, ma credo di poter rappresentare anche il pensiero degli altri: non giocavamo a fare i grandi, giocavamo e basta. A quell’età c’è chi s’incontra con gli amici per la partita di calcio; noi ci incontravamo per la “partita di musica”. Era uno spasso riunirci, non vedevamo l’ora di farlo per imparare cose nuove, per sentire il fracasso del rullante, per ficcare la spina del jack nella presa dell’amplificatore, percantare in un microfono vero, che era un sogno. Maremma, che bei giocattoli avevamo!

D: Tu e la chitarra quindi un amore nato… fin dai primi passi di vita…

R: Non esattamente. Prima della chitarra m’innamorai della batteria; suonavo quella di mio cugino Claudio (componente degli Iceberg, altro gruppo livornese di quel periodo) il quale — pur gentilissimo nel mettermi in mano le bacchette — guardava i suoi tamburi con una certa preoccupazione: ero indemoniato e ci picchiavo violentemente.

In casa una batteria non l’avevo, ma la costruivo (e distruggevo) quotidianamente con scatole da scarpe, fustini di detersivo, cassette della frutta recuperate al mercato, coperchi di pentola, tazze e scodelle sbocconcellate… insomma, materiale di scarto, ma prezioso per me che facevo rigorosi esercizi ritmici, e che a volte immaginavo di essere Ringo Star. La zazzera ce l’avevo, lo strumento pure, non mi mancava niente per suonare assieme ai Beatles mettendo sul piatto del Lesa un loro disco.

La chitarra, certo, quella arrivò presto, e forse fu un amore ancor più grande: non l’abbandonavo mai, tant’è che chiesi di andare a lezione da un vero maestro, perché “accà nisciuno nasce ‘mparato”.


D: Fermati! È per caso dal maestro di chitarra che incontrasti i futuri componenti dei Cuori di Pietra?

R: Esatto, li incontrai dal maestro Silvestrini, un uomo speciale, indimenticabile, sempre sorridente, musicista eclettico. Iniziai a prendere lezioni da lui nel 67, assieme a mio cugino Maurizio, bambino delizioso, amico vero, anche lui futuro Cuore di Pietra.

D: A proposito, chi erano gli altri del gruppo?

R: Il maestro Silvestrini, in seguito alla fase di rodaggio in cui si avvicendarono vari elementi, scelse la formazione definitiva: Giovanni Martelli (batteria), Luciano Del Santo (tastiere), il già citato Maurizio Giambini (chitarra e voce) e il sottoscritto (chitarra e voce).

D: Cuori di pietra… un nome “duro” per dei giovanissimi… come nacque questo nome?

R: A dire il vero non lo ricordo. O meglio, ricordo che fu un gioco anche quello: qualcuno lo propose per il gusto di creare un contrasto umoristico fra noi bambini (in pratica degli angioletti) e il nome cattivissimo che ci saremmo portati dietro. Invece ho ben presente un fatto: l’idea del contrasto piacque a tutti, non ci furono ripensamenti, quel nome divenne subito il definitivo.

D: Finita l’esperienza con i Cuori di Pietra, in quali altri gruppi hai militato?

R: Nessun gruppo di spicco. Ebbi mille esperienze, in parte come solista, in parte assieme a band che occasionalmente mi invitavano a far parte di un evento musicale, ma sempre e soltanto a scopo ludico. Peraltro avevo iniziato lo studio del pianoforte in conservatorio, e una “voce di dentro” mi sussurrava che dell’Arte dei Suoni stavo trascurando una dimensione più intima, più costruttiva: quella del suo approfondimento storico e teorico, di cui avvertivo urgenza per un arricchimento individuale. Cosicché, pur continuando ad amare il pop/rock (impazzivo per i pionieri del progressive), non ero più così entusiasta di salire sul palco un giorno sì un giorno no. Quando sei ragazzino — se realmente provi attrazione per la musica e non per l’applauso — hai poca voglia di sembrare una specie di mostro agli occhi degli amici: vuoi essere uno di loro, che magari suona Battisti sulla spiaggia cantando insieme agli altri, non «quello che oggi è sul giornale».

D: Gli anni 60 erano, lo dicono ormai tutti, formidabili, seppur molto giovane, che ricordi hai di quelle atmosfere, di quel credere che “qualcosa stava cambiando”?

R: Facciamo un passo indietro. Io nasco nel 58, mi affaccio agli anni 60 con il ciuccio in bocca. Mi tolgo il ciuccio, canto Ventiquattromila Baci e mi rimetto a ciucciare. Ciò significa che dalla mia prospettiva non stava cambiando niente: il primo mondo che ho annusato era quello, credevo fosse sempre stato quello. Per me era normale che si attendesse con impazienza l’uscita di un disco di Celentano; era normale che il giorno prima non esistesse She Loves You e il giorno dopo sì; era normale che la Befana avesse il sacco pieno di strumenti musicali; era normale che la presentatrice di Studio Uno si chiamasse Mina. MINA, non so se mi spiego. E nella seconda metà dello stesso decennio, quando sulla scena comparivano gruppi come gli Equipe 84, I Dik Dik o i New Trolls, era normale che le cantine fossero stipate di ragazzi che riproducevano le loro canzoni; era normale che il fruttivendolo mettesse i soldi da parte per comprarsi un basso; era normale sentir chiedere «Tu cosa suoni? Con chi suoni?» perché suonavano tutti, tutti o quasi.

Di quanto invece quel periodo non fosse affatto “normale”, l’ho capito assai dopo. Credo che nessuno, fra coloro che gli anni 60 non li hanno vissuti in prima persona, possa neanche vagamente immaginarne la poderosa effervescenza, l’implacabile susseguirsi di novità.

D: “Avessi fatto quella scelta”… “avessi seguito quel consiglio”… “avessi preso quel treno”… qual’è il tuo più grosso rimpianto, sempre musicalmente parlando?

R: Forse quello di essermi allontanato da Livorno giovanissimo, rinunciando così alla possibilità di contribuire al fermento musicale labronico.

D: Chi è oggi Marco Catarsi?

R: Fino all’anno scorso ti avrei risposto che svolgo questa e quest’altra attività. Oggi, con il mondo paralizzato da molti, troppi mesi, ti rispondo che l’attuale Marco Catarsi è uomo che ha in forte antipatia il vocabolo “assembramento”. Perché la musica, come ogni altra attività di gruppo — sia essa lavorativa, ricreativa o artistica — in primo luogo è aggregazione, di conseguenza unione, calore, amicizia, crescita, energia, svago, sviluppo, progresso, rafforzamento intellettivo, scambio culturale, piacere esistenziale, gioia di vivere.

D: Cosa vuoi dire esattamente?

R: Voglio dire che c’è solo da scegliere se morire anzitempo per evitare una morte incerta, o riprendere a vivere felicemente, consapevoli un giorno di morire.

GIANNI NICCOLAI

D Gianni Niccolai, bassista. In un mondo dominato dalle chitarre perché la scelta del basso ?

R Perché a differenza di molti bassisti che diventano tali per sopperire alla presenza dei troppi chitarristi nella band, io sono sempre stato attratto dal groove e dalle vibrazioni sin dall’infanzia.

D Fai parte del gruppo Stella Maris Music Conspiracy, un nome che è tutto un programma…ottima band, ottimi musicisti, una sorta di garage-punk band…come nasce questo “complesso” come si usava dire una volta ?

R Nascono per necessità espressiva e bisogno di ritrovarsi di Stefano, Tetano e Angelo. Io come Alex arriviamo dopo coinvolti anche noi nel bisogno di esprimerci e ritrovare quel suono primordiale che contraddistingue la band.

D Al vostro attivo anche un cd dal titolo Operation Mindfuck !…a quando un nuovo lavoro ?

R Ultimamente abbiamo rincominciato a suonare insieme dopo circa cinque anni di stop, poi è arrivato il Covid e ha fermato tutto di nuovo. Se le cose cambieranno e riusciremo a ritrovarci avevamo in mente di fare una registrazione di qualche nuova e vecchia canzone.

D Prima hai fatto parte dei Silvereight, poi dei Bad Love Experience e infine dei Lip Colour Revolution con i quali hai fatto due dischi…raccontaci

R In realtà è tutto al contrario, prima ho fatto parte per circa dieci anni dei Lip Colour Revolution, con cui abbiamo inciso un Lp e due Ep, dopo ho aiutato per un periodo i Bad Love Experience come bassista per il tour del disco Believe Nothing e nel frattempo suonavo con Falca Milioni e Le Figure, Silvereight, e mi sono cimentato nella creazione di una colonna sonora per la graphic novel, “I Giorni del Vino e delle Rose”.

D Quali sono stati i bassisti che ti hanno influenzato di più, i tuoi mostri sacri ?

R Roger Water, Donald Duck Dunn E Flea, erano i miei punti di riferimento fino all’adolescenza, poi è arrivato il punk il grunge e allora è cambiato tutto, adesso a quasi quarant’anni credo di averne un centinaio di bassisti che mi hanno influenzato, ma cerco di prendere spunto sopratutto da altri musicisti non solo bassisti.

D Sbaglio o ti diletti anche con la fisarmonica e il canto ?

R Con la fisarmonica mi ci sono dilettato per un periodo solo per poter riprodurre il famoso “Unplugged in New York” dei Nirvana, per il canto invece ho sempre provato fin dove arrivavo e mi veniva lasciato, anche se con i cantanti non è sempre facile rapportarsi, spesso vengono preceduti dal loro ego… Chissà forse in futuro prenderò coraggio e ci metterò io la voce.

D Ormai questa ondata di “arresti domiciliari” causata dal Covid si spera finisca…quando potremo sentirvi dal vivo, magari in città ?

R Per il momento la vedo molto dura, nel senso che con S.M.M.C. non possiamo sicuramente fare concerti con le attuali restrizioni, il pubblico ha bisogno di stare vicino e compatto, scalmanarsi e ballare. Pare al momento (e qui si evidenza il degrado culturale in cui viviamo) che le discoteche possono stare aperte, e invece per i live club o i festival che già da prima erano massacrati da leggi assurde debbano attenersi a regole ancora più rigide, una sciocchezza tipica del nostro paese.

D A proposito di città, la nostra Livorno, città dai numerosissimi gruppi…cosa manca secondo te per poter fare quel salto di qualità che il talento e la passione rendono necessari e possibile ?

R La città non è più così ricca di tantissimi gruppi, al giorno d’oggi credo che sia aumentata la qualità delle band labroniche e che in molti giovani che gravitano intorno alla musica hanno compreso che c’è bisogno anche di altre figure nel campo musicale, come chi segue l’aspetto tecnico o quello manageriale. Sarebbe bello se Livorno e l’intera costa si trasformassero in un centro di aggregazione e inclusione, però come tante cose c’entra sempre di mezzo la politica, dove si potrebbe incentivare la musica dal vivo e il busking de tassare i locali e chi fa attività culturale.

D Tutti noi abbiamo rimorsi e rimpianti…tutti noi non siamo saliti su quel treno che ci stava aspettando…dove andava il tuo ?

R Mah, credo di averli presi tutti i treni che potevo prendere, ma francamente credo anche che dobbiamo smettere di vedere il successo e “l’arrivare” (poi chissà dove) come una necessità, come si vede nella musica che viene prodotta oggi(in Italia), mi sembra che sia una gara a chi fa più schifo a chi è meno originale, al diventare tutti uguali. Invece di una sana e produttiva voglia di creare qualcosa di nuovo, fresco e curioso e nel collaborare con gli altri musicisti creando gruppi che mancano, sopratutto in una società che ci vuole sempre più soli e solisti.

D Chi è oggi Gianni Niccolai ?

R Oggi sono un appassionato di musica, viaggi e natura, che vive del lavoro che si è inventato nell’ambiente dove sguazzo da più di vent’anni, ho una curiosità e una voglia di esprimermi ancora grande, soffro solo l’assenza di un “gruppo” di persone che la vede e vive come me, ma sono certo che il tempo mi darà una mano a incontrare le giuste persone, come ha fatto fino ad ora.

BELLONI BARBARA – Dylan

Molti artisti hanno stuoli di fans, sono seguiti dagli stessi con passione e dedizione…sono stati scelti da migliaia di ragazzi che li hanno innalzati a loro beniamini.

Bob Dylan invece si è scelto lui stesso i suoi fans, uno per uno. Li ha individuati, selezionati e…scelti. Ha accompagnato loro durante tutta la loro vita, senza lasciarli mai e soprattutto senza mai tradirli o deluderli. Anche adesso che è un vecchio saggio, il nonno al quale fare le confidenze più intime, rivelare i segreti anche più “bastardi”, lui è lì, pronto a tendere l’orecchio, ascoltare, consigliare, senza mai giudicare. Tra i giovani da lui scelti c’è anche Barbara Belloni.

E Barbara ha deciso di omaggiare Bob con un ottimo lavoro, prendendo alcune canzoni del Premio Nobel per la Letteratura , farle sue, interpretarle alla sua maniera, personalizzandole, senza mai cadere nell’errore di fare una fotocopia dell’originale.

Per fare questa ha chiesto aiuto a musicisti più che validi, naturalmente facenti parte della schiera di “scelti”: Flamiano Mazzaron e Stefano Stella alla chitarra, Alessandro Arcuri al basso, Pippo Guarnera all’organo e Vincenzo Barattin a legare il tutto dettando i tempi con la sua batteria.

Il risultato è sorprendente . “Dylan” è un disco fresco, rivitalizzante, cantato benissimo e suonato meglio…

La band non è mai invadente mettendosi completamente al servizio della bella voce di Barbara che riscopre anche pezzi non propriamente capolavori riconosciuti ( ma in un sacchetto colmo di diamanti puoi “tirar” su qualunque pietruzza che brilla comunque ).

Blind Willie McTell è un gioiello, impreziosito dalla presenza di Paul Millns al piano e dai “ricami” della National Steel Guitar del grandissimo Roberto Luti mentre in A Hard Rain’s a-Gonna Fall Barbara chiede il permesso a Janis (l’inizio sembra Me and Bobby McGee….).

Make You Feel My Love è sussurrata, piena d’amore, invece Slow Train Coming è rabbiosa, sentita, cantata “di pancia”, per finire a This Wheel’s on Fire che sarebbe piaciuta anche a Rick Danko.

Si, c’è ancora vita là fuori…

GIULIA D’AMATO

D Giulia D’Amato, cantante…immagino da quando hai iniziato a camminare…

R In realtà Giulia ha iniziato a cantare e a camminare tardino ..sono una che ha i suoi tempi. Da adolescente ho partecipato a qualche Kermesse e concorsi locali,ma con poca consapevolezza; so solo che volevo farlo. Una voce intonata, un buon orecchio,un buon senso del ritmo. Mi dicevano..”la bimba va fatta cantare”….e io cantavo …cantavo qualsiasi cosa.

D Hai una voce potente, grintosa, calda…hai fatto qualche studio o è tutto frutto di madre natura ?

R La voce è sicuramente una dote innata…anzi un privilegio mi piace pensare..e con il passare degli anni è cambiata e maturata molto ,influenzata dai miei ascolti:il rock ,il blues il soul è come se avessero scelto quale dovesse essere il colore della mia voce…decisamente Black.

Auro Morini è stato l unico maestro ad avermi aiutato a muovere i primi passi. Lui mi ha dato le giuste nozioni per una buona respirazione. Rimpiango solo di non essere stata un allieva costante allora, forse per la giovane età.
In seguito ho passato anni ad ascoltare e cercare quella giusta chiave di lettura per ciò che realmente volevo cantare.

D Fai parte del gruppo Julia D’Amato Blus Band…come nasce questa band ?

R La mia band nasce da un incontro fortuito,durante una jam casereccia…neanche ci conoscevamo di persona. Ma come ben sapete per instaurare un feeling basta un attimo….l’ alchimia è una cosa preziosa e quando viene tradotta in musica va fatta suonare…e così è stato! Sono circa 2 anni che suoniamo insieme e anche se viviamo distanti e proviamo poco quando ci esibiamo ritrovo quel groove che ci contraddistingue.

D Giulia e il blues…sei nata per cantarlo, interpretarlo…ti ho vista sul palco alcune volte e impossibile non notare che “senti” il pezzo, lo interpreti, lo fai tuo…la musica del diavolo ti ha stregato l’anima…

R Ero un turbine di emozioni contrastanti,dovevo convogliarle in una direzione. Be’…è così che sono arrivata al Blues…
In realtà Janis Joplin mi ci ha portato. Mi ha aperto un mondo quella voce somigliante a un treno a vapore. Prima esperienza di blues cantato da una bianca. Ero stregata. Mi era familiare quel modo di cantare . Poi Big Mama, Nina Simone, Patti Smith, Etta James, Howlin Wolf, AMy winehouse , Muddy Water…fu chiaro la mia attitudine quale fosse.
Ho qualcosa in comune con questi personaggi…c è un intesa emotiva, so di cosa parlano. Alla fine la scelta di un genere è data da questo,da quello che ti fa sentire e quello in cui più ti ritrovi. E io nel blues ritrovo me…anche se nella vita non so bene chi sono..!

D Progetti futuri ? Riprenderete i concerti e se si anticipaci qualche data…

R Forse qualche data tra Luglio e Agosto sul litorale la faremo..piazzare un gruppo con 5 elementi ora non sarà facile vista l emergenza sanitaria. Magari qualche serata in sessione acustica…con il mio chitarrista e compagno..(anch’egli grande fonte di ispirazione per me), riproponendo lo stesso repertorio.

D Salire su un palco e “dare tutto se stesso” per chi ci ascolta è gratificante…come reagisce Livorno, città della musica per eccellenza, verso voi artisti ?

R Il palco è il banco di prova per definizione. Cercare di arrivare al pubblico è il lato più ambizioso e affascinante del live. Esibirsi è regalare e lasciare qualcosa di se a chi ti ascolta.. è bellissimo c è poco da dire e in questi mesi è mancato molto.
Io non so bene cosa rimane a chi mi ascolta …
Qualcuno mi ha detto
“Canti come una donna dalla pelle scura anche se sei una biondina “…. be’…un complimento cosi non ha prezzo per me….
Vuol dire che quella voce un po sporca e imperfetta,
con una timbrica scura e grintosa in qualche modo rimane impressa. E allora chiudo gli occhi e mi butto…ho sempre fatto così. Nella vita…sono una che si butta.

D Tutti noi ripensiamo spesso a quel treno che è partito senza di noi…ci ha aspettato ma noi stupidamente non siamo saliti lasciandoci ancora un aspro sapore di rimorso…dove andava quel tuo treno ?

R Anche se ancora oggi non so bene cosa mi riservi ….io mi butto sempre e comunque, a volte mi tutelo poco e mi faccio male. Ma non voglio rimorsi e rimpianti, e sebbene molti treni li abbia persi sono convinta che tanti altri dovranno passare.
L importante è non sentirsi mai arrivati….apprendere dagli altri..sapere ascoltare. Siate curiosi di imparare….sempre