27 GENNAIO : GIORNO DELLA MEMORIA

   

Spesso, soprattutto da bambino mi sono fatto domade sull’aldilà, sul paradiso, sul purgatorio , ma soprattutto sull’inferno. Molte volte ho cercato di immaginare quel posto tremendo, con i dannati che urlavano di dolore, con l’odore della carne bruciata da fuochi perenni, con i diavoli che con l’immancabile forcone torturavano gli sventurati, ma mai avrei pensato di poter visitare quel luogo sulla Terra. Invece, come il buon Dante, anche io ho visitato gli inferi.

Era una mattina uggiosa di agosto, con il tempo che non prometteva niente di buono nonostante il gran caldo, quella che mi vide varcare il cancello di Auschwitz. Per un appassionato di storia era l’occasione cercata da una vita. La prima sensazione è quella dell’oppressione, nonostante il lager sia ubicato in campo aperto, una senso di pesantezza ti prende immediatamente.

Decine di libri letti, mogliaia di storie, centinaia di personaggi, milioni di fantasmi si materializzarono all’improvviso. Varcare il cancello con la fatidica scritta ARBEIT MACH FREI ti riporta indietro nel tempo e ti fa correre un brivido lungo la schiena.

Un attimo di panico mi assale nel pensare che da quel cancello sono passati milioni di esseri umani che non hanno mai fatto ritorno a casa. La nostra guida, che parla un italiano perfetto, ammonisce un visitatore che sta fumando e gli intima di spengere la sigaretta in quanto Auschwitz è un cimitero-museo e come tale va rispettato. Ti senti smarrito mentre cammini sul selciato di pietre consumate e se ti concentri ti sembra di sentire il calpestio degli zoccoli dei deportati. I vari edifici con il numero del “blocco” sono un pugno nello stomaco: il blocco degli interrogatori, quello delle torture, quello dove il famigerato dottor Mengele faceva i suoi esperimenti sui gemelli, si materializzano davanti ai miei occhi. Ovunque filo spinato, ben sistemato, simmetricamente perfetto e torrette di guardia, poi ancora filo spinato.

Impossibile non rimanere in silenzio davanti al “muro della morte” dove venivano fucilatii prigionieri: migliaia di fori danno l’idea della carneficina. Blocco dopo blocco sale l’angoscia , accresciuta da migliaia di foto di volti di prigionieri uccisi che ti scorrono davanti agli occhi. Non so descrivere l’impressione ricevuta entrando in una sala e trovarsi davanti a tonnellate di capelli umani ben conservati, in un’altra migliaia di scarpe, in un’altra ancora migliaia di occhiali, migliaia di spazzolini da denti, migliaia di pennelli da barba, migliaia di valige con i nomi dei proprietari ancora visibili, migliaia di pentole, tegamini, posate…

La stanza dei bambini poi ti obbliga a deglutire e ti prende un nodo alla gola: vestiti, piccoli giochi, le scarpine di quegli innocenti ti fanno partecipe di una umanità totalmente imbestialita che non ha portato ripsetto dinanzi alla purezza e al pianto di un bimbo.

Auschwitz è terribile, ma Birkenau è peggio !

La foto che centinaia di volte ho visto, quella foto dei binari del treno che arrivano direttamente dentro il lager, adesso era lì, davanti ai miei occhi…allora è tutto tremendamente vero…

Si entra nel campo e subito si materializza un girone dantesco. Sembra incredibile ma ti assale l’odore della morte, un odore acre, soffocante, l’odore che sicuramente avrà trovato Dante quando scese all’inferno con Virgilio.

Ti aspetti in ogni momento di incontrare la morte con la falce che reclama il suo indiscusso possesso di quel luogo. Il campo principale era tremendo ma era pur sempre un complesso in muratura, qua migliaia di baracche,una distesa sterminata di baracche di legno dove venivano ammassate decine e decine di persone.

Solo la prima fila è rimasta intatta a sfidare il tempo…per non far dimenticare.

E’ possibile aprire il vecchio portone di legno che cigola sinistramente e l’irreale appare dinanzi agli occhi del visitatore: impossibile immaginare condizioni di vita più disumane…forse le riserve indiane…

Decine di fatiscenti letti a castello per centinaia di prigioniri, con il pavimento in terra battuta che diventa subito fango, con il freddo pungente che ti “buca “ le ossa.

La capanna dei bagni ha dell’incredibile, con una decina di fori che servivano da latrina comunre, che la rende perfettamente uguale ad un ricovero per animali, soltanto che là trovavano tormento esseri umani.

Uscire significa prendere una boccata d’aria ma immediatamente lo sguardo corre ai binari del treno, allo “slargo” dove avevano luogo le selezioni. E allora ti immagini le persone “scartate” che si incamminavano ignare verso le docce. Mi ritrovo a fare gli stessi passi che milioni di sventurati hanno fatto e mi sembra di sentire le voci di vecchi, donne, bambini, tanti bambini che andavano incontro alla morte.

Il locale delle “docce” è ampio e sono ben visibili ifori da dove veniva iniettato il famigerato Zylon B: sarà suggestione, sarà quel mio essere claustofobico, sarà non so che, ma un senso di mancanza d’aria mi prende e riguadagno celermente l’uscita.

Ora davanti a noi ci sono le rovine di quegli che erano i forni crematori, solo una parte è rimasta in piedi; rovine perchè i nazisti li fecero saltare in aria con la speranza di cancellare ogni traccia,ma essi sono ancora lì, per rendere testimonianza, per far riflettere.

Inizia a piovere, una pioggerellina fitta e insistente che aumenta sempre di più, una pioggia che sembra voglia far capire al visitatore distratto, magari intento solo a scattare foto, che quello è un luogo di morte, un sacrario testimone dell’olocausto.

Mi rendo conto che sia impossibile rendere l’idea di cosa sia un lager, dei sentimenti che quel luogo fa nascere nel nostro animo, delle sensazioni che ti fa vivere.

Vorrei urlare, sfogare la mia rabbia, forse come esorcismo di quello che ho appena visto, un urlo defaticante che ti fa riprendere fiato.

Subito un pensiero mi passa per la testa, un pensiero che rivolgo ad insegnanti ed educatori: tra una gita piacevole e una spensierta, tra una settimana bianca e l’altra, una visita in questi luoghi dovrebbe essere inserita nel programma didattico di ogni scuola che si rispetti. Per non dimenticare…

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